Ritratti di mastri birrai vincenti
La birra artigianale italiana è un canto di ribellione, e dietro ogni sorso ci sono uomini e donne che incarnano la maestria. Negli anni ’90, quando le birre industriali inondavano i banconi, ho conosciuto birrai che, contro ogni logica, sceglievano la via della qualità. Ricordo un uomo sulle colline umbre, un tipo taciturno con mani da contadino: la sua birra scura, densa di malto tostato, era un sapore che sapeva di camino acceso e grano antico. Non aveva studi accademici, ma un’intuizione che trasformava luppolo e orzo in un elisir che faceva tacere i critici. Era un successo figlio della pazienza, di prove fatte in una cantina umida, lontano dai clamori delle fiere.
Poi c’era una donna vicino a Verona, una pioniera che con una birra chiara al miele di acacia ha conquistato le taverne locali. Il suo aroma era un soffio di primavera, un gusto che danzava tra dolcezza e amarezza, frutto di un’ostinazione rara. Questi birrai non cercavano la gloria: volevano una birra viva, che parlasse della loro terra. Le loro prodezze erano nei dettagli: un malto macinato a mano, un luppolo raccolto al mattino, una fermentazione lenta che dava alla schiuma una consistenza quasi cremosa.
Non erano soli. In Piemonte, un altro maestro usava erbe di montagna – timo selvatico, ginepro – per un nettare che era poesia in bottiglia. Ogni sorso era una sfida al palato, una dimostrazione che la cucina liquida poteva rivaleggiare con un piatto d’alta scuola. Questi trionfi non erano casuali: nascevano da una dedizione che il critico non può ignorare. La lezione? La birra artigianale è passione, è rischio, è il coraggio di dire no alla mediocrità.