Oggi vedremo insieme di analizzare i motivi per il quale il food marketing e il mondo dell’ advertising dedicato a ristoranti, pizzerie, osterie e altre piccole attività di ristorazione potrebbe non essere una miniera d’oro come si vuol far credere – ovviamente, nel caso ci fosse qualcuno che possa dimostrare il contrario, a fine articolo c’è un form dove siamo liberi a commenti e considerazioni.
Innanzitutto, cerchiamo di valutare a livello italiano tutto quello che riguarda l’intricato mondo delle strategie di marketing applicate alla ristorazione. Siamo bombardati di siti che ci suggeriscono “Semplici mosse per vendere” o “Consigli fondamentali per il food marketing: lancia la tua attività”; spesso, tutto ciò è puramente propaganda. In futuro parleremo anche di quali veri siti web occorrano per far sì che un ristoratore possa veramente trarre profitto da tali strategie. Cercano loro stessi di venderti qualcosa che è, semplicemente, immateriale, impalpabile: ammettendo l’esistenza che tali strategie esistano, com’è possibile che al momento quasi nessun ristorante riesca a trarre guadagno dalla sua pagina Facebook, Instagram, sito?
Il food marketing è la capacità di raccontare un brand, una storia, avvalendosi della comunicazione per raccontare un prodotto. Uno storytelling – letteralmente, l’atto del narrare – estremamente preciso, i cui ingranaggi minuziosamente oliati dovrebbero permettere ad un’attività ristorativa, tramite delle strategie applicate, di incentivare i suoi guadagni. Questo è ciò che promette il food marketing.
Per quale motivo crediamo che il food marketing non sia adatto per i ristoranti? La risposta, per noi, è molto semplice: per creare un brand, un prodotto in cui le persone possono riporre fiducia e soprattutto riporre il loro denaro, sono necessarie cifre da capogiro – si parla di milioni di euro – e il bombardamento sui social deve essere costante e ripetuto nel tempo, per permettere al consumatore che il messaggio che il brand vuole lasciare si solidifichi, strato per strato, nella sua mente.
Il marketing della ristorazione diventa un tutt’uno con il bisogno stesso del consumatore, e tale meccanismo non può semplicemente essere creato su una piattaforma: per il ristorante, il ristoratore, il processo deve nascere principalmente all’interno delle mura del ristorante stesso, a costo zero. In che modo? Tramite piccoli questionari da sottoporre o ascoltando il cliente stesso del ristorante.
La parola marketing indica “Il complesso delle tecniche intese a porre merci e servizi a disposizione del consumatore e dell’utente in un dato mercato nel tempo, luogo e modo più adatti, ai costi più bassi per il consumatore e nello stesso tempo remunerativi per l’impresa”: ciò implica, però, un’ingente quantità di denaro da parte del ristoratore, con un margine minimo di guadagno. La spesa, necessaria affinché il food marketing del prodotto decolli, sarà sempre maggiore rispetto al guadagno.
La ristorazione è un mondo che potremmo definire lontano dalle tecniche narrative a cui siamo abituati: il prodotto viene venduto solo ed esclusivamente per poter apparire come uno specchio, ad esempio: vieni a mangiare in questo ristorante, poiché utilizziamo prodotti sani e nutriti – mangiandoli, tu stesso sarai sano, nutrito ed in forma.
Il food marketing ingloba il prodotto, non riesce ad esaltarlo per quanto riguarda il mondo della ristorazione. Un’attività di ristorazione, per quanto ottima essa sia, avrà bisogno di molta pubblicità per affermarsi: per creare propaganda mirata ad ottenere dalla collettività una preferenza sostanziale per un prodotto, per un brand, si dovranno assumere persone qualificate, dunque ci sarà bisogno di una maggiore quantità di denaro da investire nell’attività.
Il food marketing per poter prendere avvio effettua sicuramente un’analisi iniziale, ma, esattamente, cosa prende in considerazione? Il bacino di utenza che riesce a raggiungere un sito web di un’attività ristorativa? E cosa produce, tramite l’analisi dei dati?
Il food marketing è una strategia che potrebbe funzionare se ben applicata su un determinato prodotto (ad esempio, una nuova gamma di prodotti dolciari) oppure su un prodotto di largo consumo (in Italia potrebbe focalizzarsi sul vino, la pizza, pasta), ma non potrebbe funzionare per le ragioni sopra elencate per quanto riguarda un’attività ristorativa. Il rapporto con il cliente per quanto riguarda il food marketing deve essere costante, ma delicato: applicato, potremmo dire, con il contagocce; basterebbe poco, davvero poco per perdere la relazione instauratasi con esso.
Per realizzare e comprendere quanto il food marketing abbia un ruolo fondamentale nella scelta del consumatore dobbiamo prendere un altro fattore in considerazione, nella nostra equazione: la psicologia. Pur non accorgendocene, è inevitabile che la presentazione di un prodotto, di un cibo, di un’attività ristorativa influenza la nostra percezione. Le scelte del consumatore, difatti, rimangono sempre consapevoli, ma quest’ultimo è come se venisse trascinato ed influenzato nella scelta da altri fattori: il colore, ad esempio. Un colore vivace risalterà agli occhi di un consumatore: rosso, verde, giallo. L’immagine del brand stesso, come viene narrato il brand in questione, il prezzo, persino il packaging di un prodotto sono elementi che il consumatore filtra attraverso i sensi della percezione.
Infatti, negli ultimi anni sono fiorite ricerche ed incontri su una nuova branca del marketing, il neuromarketing: i professionisti del settore della ristorazione sono caldamente invitati a partecipare a questi incontri, poiché permettono di capire quanto sia stretto il rapporto tra meccanismi cognitivi e vendita di un prodotto o di un brand.
La scienza, quindi, viene incontro alle esigenze dei professionisti: studiando i meccanismi della percezione e sfruttando le associazioni mentali del consumatore, infatti, si potrebbe verificare quasi in maniera scientifica un vero successo commerciale.
Far leva sul consumatore attraverso un racconto ben strutturato e, contemporaneamente, attirandolo a sé tramite meccanismi inconsci determinerebbe un incremento delle vendite: un cliente, infatti, è sempre disposto ad investire una maggiore quantità di denaro nel momento in cui si sente legato emotivamente ad un prodotto. Dunque, la neuroscienza potrebbe aiutare i professionisti legati al settore della ristorazione; abbiamo scoperto che il modo in cui un essere umano processa il cibo è infinitamente legato ad altre percezioni, non solamente al gusto: emozioni, ricordi e memoria passano attraverso il cibo stesso, legandosi in maniera indissolubile nelle scelte del consumatore.
Quale sarebbe, dunque, la figura da affiancare ad un’attività ristorativa per permettere una florida attività di marketing?
Uno psicologo cognitivo con una specializzazione in strategia digitale? Tali figure non sono, per ora, attive in Italia.
Per quanto riguarda le neuroscienze applicate al marketing, inoltre, non si tratterebbe di un elemento così innovativo, per quanto possa apparire stupefacente ai nostri occhi: infatti, il concetto secondo cui si possono inviare informazioni al cervello senza la percezione dell’elaborazione cognitiva è qualcosa noto all’uomo da più di cinquant’anni. Dobbiamo necessariamente entrare nell’ottica in cui riusciamo finalmente a comprendere la verità: ogni pubblicità di qualsiasi prodotto contiene dentro di sé un messaggio esplicito, sì, ma anche messaggi impliciti e, soprattutto, subliminali.
I messaggi subliminali possono essere stimoli di tipo visivo o uditivo che la mente, pur cosciente, non riesce a percepire: tali messaggi sono inseriti in pubblicità, come, ad esempio, degli spot televisivi. Questo tipo di comunicazione può essere utilizzata per irrobustire o aumentare la persuasività degli annunci pubblicitari, oppure per trasmettere un messaggio completamente diverso. Purtroppo, o per fortuna, tendiamo a non rispondere a tali stimoli poiché sono al di sotto della soglia della nostra percezione, come un brusio che sentiamo, ma in cui non comprendiamo cosa viene detto.
Per comprendere più a fondo il legame tra food marketing e messaggi subliminali possiamo fare riferimento ad un episodio avvenuto nel 2007, in cui, durante la trasmissione di un episodio dell’enorme popolare show di ristorazione di Food Network, Iron Chef America, l’immagine del logo di McDonald è stata proiettata sullo schermo per una frazione di secondo – abbastanza corta per passare totalmente inosservata dalla maggior parte degli spettatori, ma lunga abbastanza per essere notato da più di qualcun altro. McDonald ha risposto alle accuse obiettando di non utilizzare messaggi subliminali: ma, per ritornare alla teoria del colore, potremmo accorgerci che non è esattamente così.
Infatti, il dominante colore rosso usato dall’azienda statunitense richiama, nella mente dell’uomo, l’istinto alla fame e, al tempo stesso, a consumare in fretta il proprio pasto: il giallo, invece, è un colore tipicamente allegro e gioviale, il quale attirerebbe verso di sé i più piccoli. In questo modo, l’azienda si assicurerebbe un continuo via vai di persone spinte, inconsciamente, a mangiare in fretta lasciando così il posto ad altri eventuali consumatori.
Un’ottima strategia, sicuramente, ma cosa accadrà in futuro, nell’intrecciarsi di marketing, tecnologia e cibo?
In America un’azienda ha brevettato, ad esempio, un sistema con cui osservare il consumatore in un supermercato: a che pro? Il sensore analizza quanto, effettivamente, il cliente sosta davanti ad un prodotto e compie, infine, la sua scelta. Verso quali prodotti sarà orientato? Il sensore rileverà quali prodotti riescono ad attirare l’attenzione del cliente e quali no: questo sviluppo tecnologico potrebbe essere estremamente rilevante per le aziende, le quali potrebbero decidere di creare un nuovo design del prodotto oppure tentare di investire, magari, dei fondi per una nuova campagna di marketing.
Comprendiamo così quanto sia labile e delicato investire in un settore come quello del food marketing.