Il gelato artigianale italiano sta vivendo un momento di gloria, e il 2025 si apre con una notizia che profuma di crema e frutta fresca: il settore è in pieno boom, con un fatturato che ha sfiorato i 3 miliardi di euro nel 2023, secondo l’Associazione Italiana Gelatieri, e una crescita dell’11% rispetto all’anno prima. Non è solo una questione di numeri: questo dessert cremoso, fatto a mano con passione, sta diventando un simbolo di gusto e tradizione, amato da chi cerca sapori autentici e da chi vuole un’alternativa genuina ai prodotti industriali.
Da dove nasce questo successo? Dalle mani dei maestri gelatieri, sparsi in 39 mila punti vendita tra gelaterie, pasticcerie e bar, che ogni giorno mescolano latte, zucchero e ingredienti scelti con cura per creare delizie uniche. Tutto è iniziato secoli fa, quando i siciliani mischiavano neve dell’Etna con succhi di frutta, ma è stato nel ‘900 che il gelato artigianale ha preso il volo, grazie a nomi storici come Fassi a Roma o Grom, nato a Torino. Oggi, i produttori sono un esercito di artigiani: dai piccoli laboratori di paese alle realtà premiate come La Gelateria Bloom di Modena o Cioccolati Italiani a Milano, che sfornano gusti da far girare la testa.
E quali sono i sapori che gli italiani (e non solo) mettono nel cono o nella coppetta? Una recente indagine di Bva-Doxa per l’Istituto del Gelato Italiano svela la classifica del 2024: il cioccolato domina incontrastato con il 27% delle preferenze, un re dalle mille facce – fondente, al latte o con scaglie croccanti. Seguono pistacchio (14%) e nocciola (11%), due gioielli della tradizione che fanno innamorare per la loro intensità. Ma non mancano sorprese: il limone, fresco e dissetante, si piazza al 13%, mentre la fragola (12%) e la crema (10%) tengono alta la bandiera dei classici. Eppure, il 2025 sembra pronto a mescolare le carte: gusti come il panettone, che piace al 43% dei curiosi, o lo zenzero (21%), stanno spuntando nei banchi, segno di una voglia di novità che non dimentica le radici.
Ma dove si gusta di più questo nettare gelato? La Lombardia è la regina, con il 11,2% delle gelaterie italiane, seguita da Toscana (9,3%) e Sicilia (8,4%), terre dove il gelato è quasi una religione. Milano è la capitale del cono costoso – oltre 20 euro al chilo – ma anche Palermo, con i suoi 13 euro, non scherza in qualità. E non è solo un affare nostrano: l’export del gelato artigianale italiano cresce, con paesi come Germania e Stati Uniti che ne vanno pazzi, attratti da quel sapore che sa di vacanza e semplicità. Nel 2023, il settore delle macchine e degli ingredienti per gelato ha fatturato 1,65 miliardi di euro, con il 70% della produzione che finisce oltre confine, secondo Unione Italiana Food.
I produttori artigianali sono il cuore di questa storia. Pensiamo a realtà come Rufus a Pisa, che osa con il gelato al porro toscano caramellato, o Dolce Arte a Cutrofiano, nel Salento, dove servono gusti salati su friselle croccanti – rape stufate o pomodori in padella. Non sono solo gelatieri: sono custodi di un’arte che usa 220 mila tonnellate di latte, 21 mila di frutta fresca e 1.900 di nocciole piemontesi ogni anno, come stima Coldiretti. E il futuro? Si tinge di verde: il gelato bio e senza lattosio sta prendendo piede, spinto da una clientela che vuole salute e sapore.
Da consumatore, ti dico: il gelato artigianale è più di un dolce, è un viaggio. Ogni cucchiaiata porta con sé la fatica di chi sceglie il pistacchio di Bronte o la vaniglia del Madagascar, di chi mescola con pazienza per evitare i cristalli di ghiaccio. È un lusso semplice, che costa di più – dai 5-6 euro al chilo di base fino ai 20 nelle città – ma che ripaga con un gusto che ti resta in bocca e nell’anima. Il 2025 sarà l’anno del gelato, e io sono già in fila per la prossima pallina.
I metodi antichi dei gelatieri d’eccellenza
Quando si parla di gelato artigianale, la mente corre a un’epoca che odora di latte fresco e mani screpolate dalla fatica, un tempo in cui la cucina era un atto di fede più che una scienza. Negli anni passati, i gelatieri italiani – veri poeti del freddo – trasformavano la semplicità in sapore, usando tecniche che oggi sembrano leggende. Non c’erano macchinari lucenti, ma tini di legno consunto, levigati dall’uso, e palette mosse da braccia robuste che giravano senza sosta. La mantecatura era un lavoro da titani: ore di sforzo per amalgamare latte, zucchero e frutta, fino a ottenere una crema densa, vellutata, che portava in sé l’anima della terra.
Pensate alla neve, sì, la neve vera, raccolta sui pendii dell’Appennino o delle Alpi, custodita in grotte umide per raffreddare le miscele. Era un ingrediente vivo, un dono della natura che i maestri gelatieri accoglievano con reverenza. Non esistevano frigoriferi, ma solo la sapienza di chi sapeva conservare il freddo con astuzia contadina. E i sapori? Quelli erano figli del momento: fragole selvatiche strappate ai rovi, fichi maturi colti sotto un sole rovente, nocciole pestate a mano fino a diventare un unguento profumato.
La tradizione di quei giorni viveva nei dettagli: il latte non era mai pastorizzato, ma crudo, denso di un aroma che oggi si è perso, rubato dalla fretta moderna.
Ogni gelatiere aveva il suo rituale, un procedimento che era quasi un culto. Ricordo un vecchio di Sorrento che mi raccontò di suo nonno: usava un paiolo di rame e un fuoco lento per scaldare il latte, mescolando con un cucchiaio di ulivo intagliato a mano.
Il risultato era un gelato che sapeva di casa, di campagna, di vita. Non era solo qualità, era maestria, un’arte che si tramandava sussurrando, lontano da occhi indiscreti. Oggi, nei vicoli di qualche borgo dimenticato, si sente ancora parlare di questi uomini: figure mitiche che con poco – un secchio, una paletta, un frutto – creavano un gusto che faceva tacere il mondo.
Eppure, quel passato non è solo nostalgia. È un monito: il gelato artigianale deve tornare a quelle radici, a quei metodi che non mentono. Basta con le scorciatoie, con i preparati che sviliscono il nome. Un critico degli anni ’8d0 come me non può che gridarlo: il vero gelato è fatica, è tempo, è passione. Senza questo, è solo freddo senza anima.