Immagina un mattino d’autunno negli anni ’40, in un paesino dell’Emilia o della Toscana. La nebbia si alza piano dai campi, e tua nonna torna dall’orto con un cesto di carote storte e un mazzo di bietole. Il pane lo ha fatto ieri, con farina macinata dal mugnaio a due chilometri da casa, e il latte lo ha preso dal contadino Mario, che lo ha munto quella mattina. Non c’era un’etichetta che diceva “bio” su niente di tutto questo, eppure lo era. Tutto era biologico, non perché qualcuno lo avesse deciso, ma perché non c’era altro modo di fare. Oggi cerchiamo artigianalità, tracciabilità e zerowaste come se fossero medaglie da conquistare ma, allora, era la vita di tutti i giorni. Cosa è successo? Perché abbiamo perso quel mondo? Possiamo riprendercelo, con le leggi e i prodotti di oggi? Proviamo a capirlo insieme.
Gli Anni ’40-’50: il Bio senza Nome
Negli anni ’40 e ’50, l’Italia era un Paese di campagna. La guerra aveva appena finito di spezzare tutto, e la gente viveva con poco. Il cibo non arrivava da lontano: le patate crescevano nell’orto, il grano nei campi vicini, le galline razzolavano fuori dalla porta. Non c’erano pesticidi chimici – il DDT, che poi sarebbe diventato il simbolo della modernità, era appena comparso negli USA e qui si usava ancora il rame o lo zolfo, roba naturale. I fertilizzanti? Sterco di mucca o letame, sparso a mano. Era artigianalità pura: ogni pezzo di formaggio, ogni bottiglia di vino aveva le impronte di chi lo aveva fatto. E la tracciabilità? Non serviva cercarla online: sapevi che il prosciutto veniva dal maiale di Gino, macellato a novembre, e che la marmellata era delle pere dell’albero in fondo alla strada.
Anche lo zerowaste era normale. Non c’era plastica: il latte stava in bottiglie di vetro che tornavano al lattaio, il pane si avvolgeva in un panno, la pasta si comprava sfusa in sacchi di carta. Non si buttava quasi niente – gli avanzi finivano alle galline o nel brodo del giorno dopo. Era bio perché non c’era scelta: l’industria chimica non aveva ancora invaso i campi, e la filiera era corta per forza. Ma non era un sogno romantico: era fatica, resa bassa, a volte fame. Però quel pomodoro aveva un sapore che oggi paghiamo caro nei mercati bio.
Cosa è Cambiato?
Poi è arrivata la modernità, e con lei un’onda che ha travolto tutto. Negli anni ’50, la Rivoluzione Verde ha detto: “Basta soffrire, ora produciamo di più”. I trattori hanno sostituito i buoi, i fertilizzanti sintetici – azoto, fosforo, potassio – hanno fatto esplodere i raccolti. Il grano, che prima cresceva lento e diverso in ogni campo, è diventato ibrido, uniforme, pompato di chimica. Pensate al frumento Creso, introdotto negli anni ’70 in Italia: più alto, più resistente, ma anche più dipendente da pesticidi come il glifosato, che oggi troviamo dappertutto. Le mele? Da frutti storti e profumati sono diventate perfette, lucide, trattate con cere e conservanti per viaggiare dall’Argentina fin sulle nostre tavole.
Le leggi hanno seguito questa corsa. Il Decreto Legislativo 155/1954 sull’igiene alimentare ha aperto la porta alla standardizzazione: il cibo doveva essere sicuro, abbondante, controllato. Non era pensato per uccidere il bio, ma per sfamare un Paese che usciva dalla miseria. Poi, negli anni ’60 e ’70, l’industria alimentare ha preso il sopravvento. La plastica è arrivata come un miracolo: bottiglie, vaschette, pellicole. Il latte non si mungeva più a mano, ma finiva in tetrapak; la pasta non si comprava più sfusa, ma in pacchi sigillati. La tracciabilità si è persa: chi sa da dove viene il pollo del supermercato? L’ artigianalità è diventata una nicchia, schiacciata da fabbriche che sfornano tonnellate di roba uguale. E lo zerowaste? Sepolto sotto montagne di imballaggi usa e getta – nel 2024, ogni italiano produce 500 kg di rifiuti l’anno, molti dal cibo.
I prodotti sono cambiati, sì, ma anche noi. Abbiamo voluto tutto subito: fragole a Natale, arance d’estate, carne ogni giorno. La filiera corta è diventata lunga, infinita: un’oliva può fare migliaia di chilometri prima di finire in un barattolo. Le leggi europee, come la Direttiva 91/676 sui nitrati, hanno provato a mettere freni, ma non abbastanza. Il bio degli anni ’50 è sparito non perché fosse sbagliato, ma perché non reggeva il passo di un mondo affamato di comodità.
È Possibile Fare Bio Oggi? Le Leggi Ce lo Permettono?
Oggi il bio è una parola che luccica: #cibobio è tra le chiavi più cercate, e le PMI italiane ci provano. Il Regolamento UE 848/2018 dice chiaro cosa serve: niente OGM, niente chimica di sintesi, rotazioni dei campi, benessere animale. Sembra un ritorno al passato, no? Eppure, non è così semplice. Le leggi ci sono, ma sono un labirinto. Per essere “bio” devi certificarti, e questo costa: un piccolo produttore può spendere migliaia di euro l’anno tra ispettori e carte. Negli anni ’50 non serviva un bollino: il bio era gratis, oggi è un lusso.
Prendiamo un esempio: un contadino che vuole fare formaggio bio come negli anni ’50. Deve usare latte crudo, pascoli naturali, niente antibiotici a pioggia. Le norme lo permettono, ma poi arriva il controllo HACCP (Regolamento CE 852/2004): tutto deve essere sterile, documentato, tracciato. La tracciabilità è obbligatoria, e va bene, ma a volte soffoca chi non ha una segreteria dietro. E lo zerowaste? Puoi usare vetro o carta, ma i clienti vogliono comunque la confezione comoda, e i costi salgono. L’artigianalità è permessa, sì, ma solo se ti adegui a un sistema che premia i grandi.
Siamo sicuri che le leggi ci aiutino? Non proprio. Sono fatte per proteggere, ma anche per controllare. Il bio di oggi è vero finché rispetti le regole, ma non è libero come quello di settant’anni fa. Un’azienda come Biofarm Orto in Piemonte ce la fa: vende cassette di verdura bio a filiera corta, senza plastica. Ma è un’eccezione, non la norma. Le leggi ci portano a metà strada: puoi fare bio, ma non come allora, perché il mondo non è più quello.
Cosa Dovrebbe Cambiare per Tornare al Bio degli Anni ’50?
Tornare al bio degli anni ’50 non è solo questione di leggi: è un cambio di testa, di vita. Prima di tutto, servirebbe ridare spazio all’ artigianalità. Basta incentivi ai colossi: soldi e sgravi alle PMI che fanno le cose a mano, lente, vicine. Pensa a un caseificio che non deve morire sotto le scartoffie per vendere il suo pecorino al mercato. Le leggi dovrebbero snellirsi: meno certificazioni a pagamento, più fiducia in chi lavora la terra.
Poi, la tracciabilità deve essere semplice. Negli anni ’50 sapevi chi faceva il tuo cibo perché lo vedevi.
E lo zerowaste? Bisogna obbligare i negozi a vendere sfuso, come una volta: porta il tuo barattolo e prendi quello che ti serve. La Direttiva UE sui rifiuti (2018/851) lo chiede, ma in Italia siamo lenti a farlo.
I prodotti dovrebbero tornare locali: meno TIR pieni di mele cilene, più mercati contadini. Le leggi potrebbero aiutare: tasse alte sull’import e aiuti a chi coltiva vicino casa. Ma il vero cambio è nostro: smettere di volere tutto sempre. Negli anni ’50 mangiavi le zucchine d’estate e le castagne d’autunno. Oggi vogliamo fragole a gennaio – e questo il bio non lo regge.
È possibile? Sì, ma non tutto insieme. Le PMI ci provano: nel 2025, il 15% del cibo italiano è bio, dice Coldiretti, e cresce. Possiamo riavere quel sapore, ma non quella semplicità. Servirebbero meno leggi e più coraggio – nostro e di chi ci governa. Il bio degli anni ’50 non torna con un decreto: torna se decidiamo di rallentare, di sporcarci le mani, di mangiare quello che la terra ci dà davvero.